La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 19708/18, ha fissato un importate principio di diritto secondo il quale, anche dopo la riforma del settore disposta con il decreto legislativo 252/05 “le quote accantonate del trattamento di fine rapporto, tanto che siano trattenute presso l’azienda, quanto che siano versate al fondo di tesoreria dello Stato presso l’Inps o conferite in un fondo di previdenza complementare, sono intrinsecamente dotate di potenzialità satisfattiva futura e corrispondono ad un diritto certo e liquido del lavoratore, di cui la cessazione del rapporto di lavoro determina solo l’esigibilità, con la conseguenza che le stesse sono pignorabili e devono essere incluse nella dichiarazione resa dal terzo ai sensi dell’articolo 547 Cpc”.
Tale principio, valevole per i lavoratori subordinati del settore privato, si estende anche ai dipendenti pubblici, stante la totale equiparazione del regime di pignorabilità e sequestrabilità del trattamento di fine rapporto o di fine servizio susseguente alle sentenze della Corte costituzionale nn. 99/1993 e 225/1997.
Un creditore aveva sottoposto a pignoramento l’indennità di fine servizio dovuta dall’Inpdap ad un dipendente del MIUR ancora in servizio. Il giudizio si concludeva con esito favorevole in primo grado, successivamente la Corte d’appello di Bari dichiarava l’inefficacia del pignoramento, affermando la non assoggettabilità a pignoramento di somme non ancora esigibili.
La Corte di Cassazione, nella ordinanza del 25 luglio scorso, rammenta che già in passato aveva chiarito che le quote accantonate del trattamento di fine rapporto sono intrinsecamente dotate di potenzialità di soddisfare in futuro e corrispondono ad un diritto certo e liquido, di cui la cessazione del rapporto di lavoro determina solo l’esigibilità, con la conseguenza che le stesse sono pignorabili e devono essere incluse nella dichiarazione resa dal terzo ai sensi dell’art. 547 cod. proc. civ. (Sez. Lavoro, Sentenza n. 1049 del 03/02/1998).
Tale principio va tenuto fermo anche dopo la modifica della disciplina del trattamento di fine rapporto. Infatti, pur nel nuovo e più composito panorama normativo, che prevede anche la possibilità per il lavoratore di optare per un sistema di previdenza complementare, resta fermo il fatto che il trattamento di fine rapporto costituisce, a tutti gli effetti, un credito che il lavoratore matura già in costanza di rapporto di lavoro, sebbene la sua esigibilità sia subordinata al momento della cessazione del rapporto stesso Tanto chiarito, in relazione ai lavoratori dipendenti del settore privato, la questione non si pone in termini diversi per i dipendenti pubblici. Infatti, l’originario regime di impignorabilità del trattamento di fine servizio è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con le sentenze della Corte costituzionale n. 99 del 1993 e n. 225 del 1997.
Quindi, oltre che sullo stipendio mensile, il creditore del lavoratore può rivalersi anche sul suo Tfr, pignorandolo presso il datore di lavoro. Anche in questo caso, però, esiste un limite legale stabilito dalla legge e che è rappresentato da un quinto (il 20 %).
Diverso il discorso se il pignoramento avviene una volta che la somma con il Tfr viene depositata in banca, sul conto del debitore.
In tal caso, l’orientamento maggioritario riteneva un tempo integralmente pignorabile il Tfr (cioè nella misura del 100 %). La giurisprudenza, in particolare, aveva precisato che, una volta versate nel conto corrente, le somme mutano la loro natura lavorativa e/o pensionistica e si confondono con il patrimonio dell’esecutato.
Qualche tribunale, però, si è aperto a una visione un po’ più garantista. Secondo questo indirizzo, se il debitore riesce a dimostrare che sul conto non vi sono affluiti altri crediti che non quelli di lavoro, allora si potrebbe esperire un’opposizione all’esecuzione e chiedere la riduzione del pignoramento ad un solo quinto. Infatti, l’importante sarebbe dare la prova che sul conto non vi sono altri redditi che non il Tfr. La questione è però cambiata radicalmente con l’approvazione delle nuove regole sul pignoramento dello stipendio in banca secondo le quali la giacenza esistente all’atto del pignoramento può essere bloccata solo per la parte che eccede il triplo dell’assegno sociale, mentre le successive somme solo nei limiti di un quinto.
Nelle procedure esecutive presso terzi sovente il terzo pignorato dichiara ex art. 547 c.p.c. che il debitore, suo creditore, ha optato per il conferimento del proprio trattamento di fine rapporto nelle
forme pensionistiche complementari ossia nei Fondi Pensione.
Si pone quindi l’interrogativo, se sia immediatamente pignorabile o meno il cespite costituito dal montante delle somme conferite dal lavoratore-debitore nel Fondo Pensione ossia, in altre parole, se sia pignorabile quel “tesoretto” accumulato nel Fondo e quindi se esso sia immediatamente assegnabile al creditore procedente a soddisfazione del suo credito.
La risposta, verosimilmente negativa, si rinviene nell’art. 11 comma 10º D.Lgs. 5/12/2005 n. 252, il quale dispone che ferma restando l’intangibilità delle posizioni individuali costituite presso le forme pensionistiche complementari nella fase di accumulo, le prestazioni pensionistiche in capitale e rendita, e le anticipazioni sono sottoposte agli stessi limiti di cedibilità, sequestrabilità e
pignorabilità in vigore per le pensioni a carico degli istituti di previdenza. I crediti relativi alle somme oggetto di riscatto totale e parziale e le somme oggetto di anticipazione non sono
assoggettate ad alcun vincolo di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità.
La norma, come risulta evidente, pone un espresso parallelismo, per quanto riguarda la disciplina limitativa dell’aggressione da parte dei creditori, fra gli accumuli previdenziali obbligatori e gli
accumuli previdenziali nelle forme complementari e facoltative, in ragione dell’identica finalità sociale del risparmio previdenziale.
Ne risulta che, il montante che si versa al fondo pensione non è assoggettabile né a sequestro né a pignoramento e neppure è cedibile per volontà dell’interessato.
Infatti, nel periodo di accumulo, le somme fanno parte del patrimonio del Fondo Pensione e non già del patrimonio dell’interessato-debitore, il quale quindi non può né liberamente disporne né vedersele aggredite dai creditori.
La ratio di siffatta normativa è intuitiva e risiede nella stretta connessione della prestazione con lo scopo per il quale essa è istituita, vale a dire lo scopo previdenziale da cui essa non può in nessun
caso separarsi.
Solo una volta che i montanti vengano mobilizzati dalla fase di accumulo per passare nella disponibilità del soggetto titolare viene meno ogni funzione previdenziale e dunque insorge la possibilità, per i creditori, di poter esercitare sui montanti medesimi le azioni esecutive.
Claudio Testuzza