Alcune volte, nelle controversie di lavoro, si assiste alla produzione in giudizio di registrazioni di colloqui intercorsi tra il datore di lavoro e il lavoratore o fra gli stessi lavoratori.
Si tratta, nella grande maggioranza dei casi, di registrazioni effettuate in forma occulta dal lavoratore al fine di tutelare un proprio diritto, come avviene, ad esempio, quando il lavoratore intenda precostituirsi elementi di difesa in una causa di mobbing o “svelare” eventuali azioni discriminatorie o ritorsive del datore di lavoro ovvero del superiore o dei propri colleghi.
In linea generale, la Corte di Cassazione ha ritenuto, già in passato, che la registrazione di una conversazione effettuata all’insaputa dell’interlocutore sia legittima, e possa essere validamente utilizzata in sede processuale, qualora essa sia necessaria per tutelare o far valere un diritto in sede giudiziaria. L’orientamento giurisprudenziale e maggioritario dominante ritiene infatti che la registrazione di una conversazione, ancorché effettuata all’insaputa di uno dei partecipanti, costituisca una “forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l’autore può disporre legittimamente, anche ai fini di prova nel processo.”
Su questa linea si è uniformata la sentenza n. 11322 del 10 maggio scorso con cui la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento del dipendente licenziato per aver registrato conversazioni sul posto di lavoro all’insaputa dei colleghi, qualora le registrazioni, mai diffuse all’esterno, si erano rese necessarie al lavoratore per precostituirsi di elementi di difesa per salvaguardare la propria posizione in azienda. Il d.lgs. n. 196/2003, il codice in materia di protezione dei dati personali, consente di derogare al necessario consenso dell’interessato ove il trattamento dei dati sia destinato a far valere un diritto in sede giudiziaria e/o a svolgere le investigazioni difensive previste dalla legge di modifica del c. p. n. 397/2000, ad esempio per documentare le problematiche esistenti sul posto di lavoro e a salvaguardare la propria posizione. La giurisprudenza, in sintesi, ritiene che la registrazione di una conversazione, telefonica o tra presenti, effettuata da uno degli interlocutori non costituisca offesa alla libertà di comunicazione della persona e che tale registrazione possa essere utilizzata in giudizio, assumendo essa valore di prova documentale. Le registrazioni possono formare piena prova dei fatti o cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime.
La sentenza n. 11322 del 10 maggio ha riguardato il caso di un dipendente che, al fine di precostituirsi una prova per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda e per difendersi da eventuali contestazioni disciplinari, aveva registrato, all’insaputa dei colleghi, le conversazioni svolte in ufficio Successivamente, in occasione di un incontro aziendale avente ad oggetto la discussione di una precedente contestazione disciplinare consegnava le registrazioni.
L’azienda, scoperte le registrazioni, contestava la gravissima ed intollerabile violazione della privacy e procedeva al licenziamento del dipendente dal momento che, secondo la stessa, il dipendente aveva leso il vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro e costituiva una violazione della privacy.
Il dipendente ricorreva innanzi al Tribunale competente al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento e la reintegra nel posto di lavoro. Il primo giudice rigettava il ricorso del dipendente. La Corte d’appello riformava in parte la sentenza con attribuzione di un risarcimento ma senza prevederne il reintegro nel posto di lavoro.
L’interessato ricorreva, quindi, alla Corte di Cassazione che ha sentenziato, anche sulla base delle precedenti pronunce, che la condotta del dipendente che registrava le conversazioni dei colleghi nelle quali era presente era legittima e non poteva integrare non solo l’illecito penale ma anche quello disciplinare in quanto costituiva legittimo esercizio di un diritto. La Corte di Cassazione, altresì, ha sottolineato come la condotta del dipendente, che registrava le conversazioni dei colleghi non potesse ledere il vincolo fiduciario del rapporto di lavoro. Inoltre, la Corte ha affermato che, poiché la condotta del dipendente era legittima, scattava la tutela per la reintegrazione in servizio.