Che i medici siano una categoria che tende a rimanere più a lungo di tante altre professioni nel mondo del lavoro è risaputo. Ma è anche sempre più evidente che gli aumentati carichi di lavoro, l’ampliamento sempre più richiesto degli obblighi burocratici, la ristrettezza degli organici, hanno creato, negli ultimi anni, una maggiore predisposizione al pensionamento. Le ultime novità previdenziali intervengono su questo fronte forse anche ad agevolare questa parziale propensione.
L’introduzione, dopo tanti anni dal suo annullamento propugnato dalla riforma Fornero, del pensionamento di anzianità con la quota 100, potrà consentire a molti medici del servizio sanitario di scegliere di andare in pensione con un’età piuttosto anticipata (62 anni) ed una anzianità contributiva (38 anni) apparentemente modesta grazie alla possibilità, concessa molto favorevolmente in passato, di riscattare gli anni universitari e della specializzazione. Ma se questi due capisaldi sembrano essere confermati, ancorché bisognerà attendere il decreto di attuazione previsto per il mese di gennaio, tuttavia alcune anticipazioni dello stesso potrebbero intervenire a far diminuire il desiderio di intraprendere la via pensionistica.
In primo luogo sarà da considerare il previsto divieto di cumulo fra pensione ed attività lavorativa, che abbandonato in passato per l’incongruità dei suoi effetti, ritorna per calmierare il numero dei possibili pensionamenti anticipati. E’ una formula fortemente restrittiva che impedirebbe ai sanitari pensionati di svolgere alcuna attività (il limite di reddito massimo possibile sino a 5000 euro appare risibile!) sino al raggiungimento dell’età (67 anni) prevista dalle attuali norme per il pensionamento di vecchiaia. Per chi dovesse andare in pensione con 62 anni d’età si tratta di prevedere almeno cinque anni di inattività. E in campo medico ben si sa che l’allontanamento dal proprio lavoro comporta obsolescenza del proprio sapere oltre che l’inaridimento del proprio pubblico.
Altra formula restrittiva per i dipendenti pubblici e quindi anche per i medici del SSN è data dalla serie di attese per ottenere la pensione anche se si è già in possesso dei requisiti richiesti. Fra preavviso e finestre si prevede di dover aspettare almeno ulteriori nove mesi che in qualche caso potrebbero essere troppi per non attendere, invece, il pensionamento anticipato, già previsto della legge Fornero di 41 anni e 10 mesi per le donne e 42 anni e dieci mesi per gli uomini, indipendentemente dall’età anagrafica.
Un’altra condizione limitativa potrebbe riguardare il nodo del pagamento del Tfs dei dipendenti pubblici che opteranno per l’uscita anticipata. La soluzione finale, se non ci saranno ripensamenti, sarebbe di quella pagare la liquidazione agli statali non prima di 36 mesi dal pensionamento con quota 100 o, comunque, al compimento del 65esimo anno di età (3 anni dopo i 62 anni necessari per uscire con almeno 38 anni di contribuzione).
Infatti l’ipotesi di ricorrere a un prestito ponte bancario a costo zero sulla falsariga di quanto già previsto per l’Ape di mercato e da alcuni sindacati del mondo medico (Annao-Assomed) sarebbe stata accantonata dopo lo stop della Ragioneria generale dello Stato.
Attualmente dal momento del collocamento a riposo possono decorrere da un minimo di 12+3 mesi ad un massimo di 24+3 mesi per il primo rateo di Tfs/Tfr (fino a 50mila euro di importo e fino ad un massimo di tre rate una ogni anno).
Sarà, forse, più appetibile rispetto ai nuovi criteri di quota 100, la riproposizione dell’opzione donna. Opzione che consentirebbe di poter andare in pensione al personale femminile con almeno 35 anni di contributi e 58 anni d’età (59 anni per le lavoratrici autonome).
Secondo la proposta, sono previsti anche ulteriori 12 e 18 mesi rispettivamente per ricevere l’assegno, durante il quale sarebbe consentito continuare a lavorare. Una volta maturato il diritto, questo potrebbe essere esercitato in qualunque momento.
Accanto a queste possibili agevolazioni per andare più anticipatamente in pensione, sono state introdotte alcune norme che colpiscono le pensioni già in essere. Si tratta del così detto “contributo di solidarietà” e della perequazione delle pensioni. Ricordiamo che la perequazione della pensione non è altro che un modesto recupero che si attiva ogni anno sulla base dell’inflazione dell’anno precedente. Su questo procedimento si sono attivati negli anni diversi interventi restrittivi. Si è data adesso la possibilità di un pieno recupero (l’1,1 per cento) solamente ai trattamenti sino a tre volte il minimo Inps (circa 1.500 euro lordi al mese) mentre si sono attivati recuperi decrescenti per importi pensionistici maggiori.
L’ultima soluzione indicata dalla legge di bilancio prevede che con l’aumentare dell’importo delle pensioni, invece, la misura della perequazione verrà pian piano ridotta:
importo superiore a 3 volte, ma inferiore a 4 volte (2.052,04€): 97% del tasso di riferimento, ossia 1,067%; |
importo superiore a 4 volte, ma inferiore a 5 volte (2.565,05€): 77% del tasso di riferimento, ossia allo 0,847%; |
importo superiore a 5 volte ma inferiore a 6 volte (3.078,06€): 52% del tasso di riferimento, ossia lo 0,572%; |
importo superiore a 6 volte ma inferiore a 8 volte (4.104,08€): 47% del tasso di riferimento, ossia lo 0,517%; |
importo superiore a 8 volte ma inferiore a 9 volte (4.617,09€): 45% del tasso di riferimento, ossia lo 0,495% per il 2019; |
importo superiore a 9 volte il trattamento minimo: 40% del tasso di riferimento, lo 0,44%. |
Ben più significativo è l’intervento sulle così dette pensioni d’oro.
Oggetto di diverse e contraddittorie proposte di riduzione si è arrivati infine ad indicare una serie di tagli, chiamati contributo di solidarietà, che produrranno per almeno cinque anni una riformulazioni delle pensioni superiori ai 100 mila ero lordi annui:
da 100 mila a 130 mila euro > meno 15 per cento |
da 130 mila a 200 mila euro > meno 25 per cento |
da 200 mila a 350 mila euro > meno 30 per cento |
da 350 mila a 500 mila euro > meno 35 per cento |
oltre i 500 mila euro > meno 40 per cento |
Se tutte queste situazioni riguardano, chiaramente, il settore dei medici dipendenti resta irrisolto il problema se queste norme possano o dirittura debbano essere applicate anche ai medici liberi professioni e/o convenzionati iscritti, ai fini previdenziali, al loro ente di previdenza Enpam.
Per quanto riguarda l’età del pensionamento il regolamento dell’Enpam prevede già la pensione anticipata al raggiungimento del requisito anagrafico di 62 anni, unitamente a 35 anni di contribuzione e 30 anni dalla laurea ovvero a 42 anni di anzianità contributiva con qualunque età anagrafica, congiuntamente con 30 anni di anzianità di laurea (esclusa la Quota A).
Mentre dal 2018 il conseguimento della pensione di vecchiaia si realizza a 68 anni.
Dove il problema appare più delicato riguarda l’intervento riduttivo sulle pensioni d’oro.
In questo caso il decreto previsto nelle prossime settimane per definire tutto il settore previdenziale potrebbe essere utilizzato anche per sciogliere un dubbio interpretativo che è sorto sul prelievo di solidarietà alle pensioni oltre i 100mila euro lordi l’anno: se la riduzione si applica anche ai trattamenti prodotti dalle venti Casse privatizzate fra cui l’Enpam.
La questione è aperta anche se nel testo della legge si afferma che “a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge e per la durata di cinque anni, i trattamenti pensionistici diretti a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell’assicurazione generale obbligatoria e della Gestione Separata” e non si fa menzione agli enti privatizzati.
Inoltre il testo sottolinea che “la riduzione di cui al comma 261 non si applica comunque alle pensioni interamente liquidate con il sistema contributivo. Sistema che, con alcune particolarità, è applicato anche dall’Enpam. Infatti per l’Enpam il metodo di calcolo della pensione è il contributivo indiretto. Un sistema che considera “un periodo di riferimento per il computo del reddito pensionabile pari all’intera vita lavorativa, sempre nella previsione di aliquote di rendimento che garantiscano l’equità attuariale e la sostenibilità finanziaria del sistema” (cit. Elsa Fornero).
Tuttavia, c’è però, sempre nei commi della legge di Bilancio un riferimento dubbio che va oltre il fondo ad hoc istituito presso l’Inps dove convogliare i risparmi derivanti dai tagli quinquennali. Si parla, infatti, di “altri enti previdenziali” che dovranno “accantonare” i fondi risparmiati.
Per il momento né il Ministero del Lavoro né l’Adepp, che rappresenta questi enti, si sono espressi sulla questione in attesa della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Ma il dubbio permane anche perché in una prima versione del testo entrato nel Ddl Bilancio c’era una esclusione esplicita delle Casse, che poi è invece scomparsa.